Doping, Roberti e i limiti dei sistemi di repressione

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Benedetto Roberti

di Claudio Strati

 Un deficit di legislazione, una disomogeneità normativa tra i Paesi, l’impossibilità di chiedere misure cautelari e quindi di stoppare la reiterazione del reato.

E poi la mancanza di un corpo di polizia davvero specializzato.

Così la giustizia antidoping si schianta contro la realtà. Ovvero, dal suo grande lavoro, riesce a trarre meno risultati di quelli che potrebbe e vorrebbe.

Lo ha spiegato, all’incontro con l’autore Sandro Donati a Vicenza, il magistrato Benedetto Roberti, pubblico ministero della Procura di Padova che ha gestito i filoni più scottanti delle inchieste doping, attraverso i quali ha anche fatto “saltare il banco” dei casi Armstrong e Schwazer. Indagini non ancora concluse, per le quali c’è molta attesa. Pare manchi poco ormai, forse qualche mese.

Ciclista amatoriale, Roberti nelle Granfondo amatoriali ne ha viste di ogni colore. Si è fatto un’esperienza che gli ha aperto gli occhi su una realtà che non immaginava.

Arrivato in Procura a Padova dopo anni nella magistratura militare (sua l’inchiesta famosa su Gladio), nel 2008 ha “ereditato” le inchieste sul doping.

«Ho iniziato con una papà che portava una fiala al figlio al Giro d’Italia – ha raccontato -. Poi c’è stato il caso Sella, con il Cera della Roche. In quegli anni era in voga e in uso, era un prodotto che sconvolgeva le Epo classiche, perché trasportabile a temperatura ambiente anziché col frigo. E la vicenda di Nikacevic, ex prof che importava prodotti dall’Est europeo; quella volta si toccò mano un sistema di commercio vasto, che coinvolgeva il Veneto e altre zone fino alle Marche, dal medico che propone e controlla, ai mercanti. Un business».

L’anello debole, nel sistema, aggiunge Roberti, è l’atleta: «Si riesce a reprimere l’atleta, ma quello è l’ultimo passaggio, il punto molle. L’atleta di norma è incensurato, si giunge a pene patteggiate minime. In Italia è difficili condannare i pluripregiudicati, figuriamoci con gli atleti. Il sistema di solito è più vasto, ci sono medici dello sport, endocrinologi, mediatori. Lì è più difficile. Si riesce a coinvolgere le autorità sportive: un medico di Brescia è stato inibito a vita, in seguito a mie indagini, dalla giustizia sportiva. C’è stata un’indagine a carico di un medico padovano, che è stato assolto ma  colpito a livello disciplinare sportivo, visto che somministrava a una nuotatrice minorenne  una pratica pericolosa e sperimentale, l’ozonoterapia a fini dopanti».

L’Italia si è data una legge…

«Di certo la legge del 200 è positiva, ma contiene delle pecche. Quando la si  scrisse non si conoscevano le ultime metodiche. Non sanziona sufficientemente chi consiglia e sottopone a pratiche vietate l’atleta. Prevede una pena massima di tre anni, ma fino a tre anni è impossibile chiedere misure cautelari per reiterazione del reato. Così non si riesce a impedire la prosecuzione delle attività illecite. Inoltre in alcuni Paesi la legge non c’è, o ci sono normative diverse. E’ complicato fare azioni omogenee».

Ai deficit legislativi si aggiungono i problemi degli investigatori, e non solo in Italia.

«Ci manca una polizia specializzata, mancano forze di polizia giudiziaria preparate. Abbiamo i Nas, che operano però soprattutto nel settore alimenti. Bisognerebbe che il comando dei Nas affrontasse il problema: non solo spedire all’estero, per aggiornamenti, l’ufficiale di turno, ma creare una struttura di esperti del doping. La magistratura tra droga, rapine e corruzione ha poi le sue priorità su cui agire, ovviamente. C’è un problema di forze in campo».

Roberti ha una visione tragica del ciclismo, lo ritiene uno sport pressoché morto.  L’80, il 90 per cento dei casi che ha seguito riguardano le due ruote. Dalla platea Renzo Gandini, della Federciclismo, chiede: ma perché mai non si vanno a misurare e monitorare anche altri sport?

«Me lo chiedo anch’io – risponde il magistrato – ma non è che noi prendiamo di mira il ciclismo. Noi agiamo sulla scorta di notizie di reato. Ad esempio perché non ne arrivano dal calcio? Mi sono dato una risposta, un’ipotesi. Forse perché lì i club sono più strutturati, tutto è organizzato al loro interno, il medico, la palestra ecc. Nel ciclismo non è così: l’atleta è lasciato a se stesso, cerca contatti e prodotti per suo conto. Me lo hanno confermato anche due professionisti vincitori di tappe al Giro.

Io non guardo  più le gare, sono schifato. Scorro solo le classifiche, perché mi servono per il mio lavoro. Sulla scorta della mia esperienza, per far rinascere il ciclismo occorrerebbe fare tabula rasa dei diesse che vengono dal passato, che hanno trasferito le loro esperienze in un sistema sbagliato. E inserire tecnici e dirigenti nuovi, che non hanno vissuto il doping, che arrivano dalle università e da percorsi innovativi».

Una soluzione urgente, di certo, anche per altre discipline sportive.

Foto: Roberti a Vicenza (ph Enrico Vivian)