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Doping, Daniele Scarpa e la dignità del gran rifiuto

Daniele Scarpa

di Claudio Strati

“La mia è la storia di uno che qualcuno considera, alla veneta, un mona.

Solo un mona poteva rinunciare alla gloria e a quello che due medaglie olimpiche ti danno, con le rendite conseguenti. Ma io ho origini contadine, e credo che per ciascuno di noi tutto parta dai genitori. Il fatto è che ho sempre pensato che la mia dignità valga più di un oro olimpico!”.

Daniele Scarpa si racconta davanti a una numerosa platea, a Vicenza, durante la serata con il maestro del Coni Sandro Donati, autore di “Lo sport del doping”, e il magistrato Benedetto Roberti, in modi diversi due grandi accusatori del sistema doping.

Scarpa parla a cuore aperto, ripercorre vicende note ma che è sempre giusto ricordare, perché la memoria storico sportiva col tempo rischia di offuscarsi.

“Tutto parte dai genitori – spiega Scarpa – per quello vado nelle scuole e la prima cosa  che dico è che cerco di far prendere consapevolezza ai ragazzi e ai genitori, se uno si vuol buttare dalla finestra le occasioni ci sono, ma non è il caso. Un genitore deve mettere il figlio sul chi va là”.

La storia di Scarpa inizia da giovane: “Avevo vent’anni, ero pronto per la prima Olimpiade, a Los Angeles 1984. Ti avevano insegnato: mai mettere in discussione il prete e il dottore.  I dottori ci proposero la emotrasfusione. Avevo vent’anni, ti dicevano “guarda che è il tuo sangue”, anche se arricchito. Sembrava tutto normale. Ma non ci fu il tempo. In gara arrivai a 8 centesimi dal bronzo e poi capii che al Coni i quarti posti stanno sul gozzo”.

Negli anni successivi, Scarpa legge “Campioni senza valore”, il libro scandalo di Donati, quello letto sì ma anche comprato e scomparso, non più ripubblicato, oggi ancora scaricabile dal web.

”Lo lessi e feci una scelta che mi costò molto: io unico della nazionale ad allenarmi all’Acquacetosa, altri andavano dal dottore. Nel ’92 fui lì lì per la medaglia, mi pareva di passare per il brocco di turno, guardavo gli avversari ma non avevo le prove. Un episodio mi aprì ancor più gli occhi, nel ’94 a Città del Messico per un mal di schiena vado dal fisioterapista e quello mi fa una puntura, come agli altri. Chiedo: tutti col mal di schiena? No, mi dicono, la facciamo spesso. Era un antidepressivo, un ormone. Liposom. Sul tavolo vedo un elenco di sostanze dopanti, e lì dentro lo trovo. Ai ragazzi: ma voi lo sapete? No, mi dicono. Poi sono scelto per un controllo antidoping. Dico al medico: come si chiamava quel farmaco, Liposom? Non lo scrivere, mi consiglia. E dopo pochi minuti mi dicono che il controllo non si fa più…”.

Il tarlo del dubbio è diventato, insomma, qualcosa di più concreto.

“Rischiai di non essere convocato alle Olimpiadi del 96 ad Atlanta. Volevamo tenermi a casa perché a Ferrara non ci andavo. Arrivammo ai ferri corti. Ma nel ’95 avevo vinto due titoli mondiali e non potevano lasciarmi in Italia. In America vincemmo due ori, due argenti e un bronzo, un successone per una federazione piccola come la canoa. Dopo di che uscirono alcune voci, tra cui quella della Idem che tuonò: “Fuori i farmaci dello sport”. Mi chiedevo: ma deve venire qui una tedesca per dire quello che vogliamo dire noi tutti? Così iniziai a raccontare la mia storia ai giornalisti. Uscirono i titoloni sulla Gazzetta dello Sport. Mi creai un mucchio di problemi, avevo i compagni contro, subii le radiazioni. I soldi vinti con le medaglie me li sono mangiati per difendermi. Ma ero contento, la mia dignità valeva più di un oro olimpico”.

Dopo tanti anni la sensazione è la stessa: “Anche oggi vivo momenti di depressione a ricordare quelle vicende. Non è facile, quello è il mondo in cui sei cresciuto e in cui credi. Anch’io adesso ho iniziato a fare l’allenatore e l’educatore per ragazzini dai 6 ai 12 anni. Non bisogna scovare i campioni a 7 anni o a 14, i ragazzi devono praticare  un po’ di tutto, nello sport, altrimenti si fanno due scatole così. E molto conta entrare nella testa dei genitori”.

Foto: Daniele Scarpa a Vicenza (ph Enrico Vivian)

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